Riceviamo dal prof. Orazio Cancila, e davvero volentieri pubblichiamo, una bella sintesi della fondazione di Castrum Bonum, avvenuta esattamente 700 anni fa. Non siamo a conoscenza, ad oggi, di iniziative in programma per celebrare un “compleanno” così importante, e la cosa ci stupisce parecchio.
Affidiamo pertanto al testo dell’illustre professore il compito di inaugurare i festeggiamenti (privati per il momento), certi che ci saranno nuove occasioni per rendere il dovuto omaggio.
La storia di Castelbuono raccontata dalla mia maestra di terza elementare cominciava con la costruzione del castello nel 1269 da parte di Alduino Ventimiglia, conte di Geraci, che dava così origine alla nascita del nuovo borgo. Che Alduino, l’unico Ventimiglia al quale fino agli anni Sessanta era dedicata una delle più antiche strade del paese e i vicoli adiacenti, ne fosse il fondatore era allora unanimemente accettato – anche se sulla data non tutti erano d’accordo tra 1211, 1269, 1288, 1289 e 1298 – fino a quando, a metà degli anni Cinquanta del Novecento, Illuminato Peri, su sollecitazione di Antonio Mogavero Fina, individuò, sulla scorta della lapide apposta sul portale d’accesso ad arco acuto del baglio che dà sulla attuale via Sant’Anna, nel 1316 la data di inizio di costruzione del castello, in prossimità del preesistente casale di Ypsigro. In verità, come dimostrerò più oltre, la data esatta deve collocarsi fra l’8 gennaio 1317 e il 24 marzo 1317.
In principio fu quindi Ypsigro, le cui origini si perdono nel tempo: di sicuro c’è la derivazione greca del toponimo, avvalorata dal rinvenimento di reperti archeologici. Collocato all’interno del quartiere che nell’età moderna fu chiamato Terravecchia, il casale era costituito da minuscole abitazioni che si affacciavano sulla attuale via arciprete Vincenzo Coco e sulle stradine che vi sboccano. Viuzze strette e aggrovigliate che non hanno pari nell’intero paese, in lieve pendio per agevolare lo scolo delle acque e dei liquami verso il vallone a valle dell’attuale via Umberto, e con al centro un modesto incrocio, un trivio da cui si diparte l’attuale via Turrisi che, in una fase di espansione successiva, fu prolungata oltre il torrentello che aveva come suo letto l’attuale via Francesco Cipolla, fino a toccare via Umberto (attraverso vicolo delle Confraternite). L’incrocio fra le attuali vie Coco, Pergola e Turrisi era la ‘piazza’ di Ypsigro, il cuore del casale, e via Turrisi il ‘corso principale’. L’acqua necessaria era attinta alla vicinissima sorgente ai piedi del pendio, nel luogo dove più tardi sorgerà la fontana grande.
Con l’avvento dei Normanni in Sicilia Ypsigro fece parte della contea di Geraci, dove all’inizio della seconda metà del Duecento si insediavano i Ventimiglia, provenienti dalla Liguria. Nel 1317, conte di Geraci – e quindi anche feudatario di Ypsigro – era da qualche anno Francesco Ventimiglia, figlio proprio di Alduino, che costringeva il vescovo di Patti a cedergli in permuta il poggio o colle di San Pietro di Ypsigro, appartenente alla chiesa, in cambio di una certa estensione di terra in prossimità del casale. Nessun documento, prima e dopo, fa mai riferimento al poggio di San Pietro. Il toponimo appare improvvisamente e scompare. Nessun dubbio però che il poggio fosse il crinale oggi corrispondente alla via Sant’Anna di Castelbuono, alla cui base sorgeva il casale e che ha il punto più elevato nell’area poi occupata dal castello, da cui si dominava l’intera vallata.
L’1 gennaio 1317, con l’intervento del notaio di Ypsigro Nicolaus de Prato, presente anche il giudice dello stesso casale Iacobus de Alexio, il conte rilasciò così una procura a tale arciprete de Parma, familiaris del vescovo di Cefalù Giacomo, con l’incarico di recarsi a Patti presso il vescovo Giovanni e formalizzare la permuta. L’atto in verità porta la data dell’1 gennaio 1316, XV indizione. Ma poiché il notaio de Prato utilizzava la datazione ab incarnacione, per la quale l’anno cominciava il 25 marzo, ossia per la festa dell’Annunciazione, il primo gennaio 1316 corrisponde, nello stile moderno o comune, al nostro primo gennaio 1317. L’8 gennaio successivo, a Patti si rogò l’atto di permuta, con il quale il vescovo di Patti e Lipari, con il consenso della comunità della chiesa da lui presieduta, cedeva a titolo perpetuo, senza alcuna costrizione, al conte Francesco Ventimiglia, due salmate di terra comprendenti il poggio di San Pietro, site accanto al casale di Ypsigro: «permutavit, tradidit, donavit et assignavit non vi, non metu, non dolo nec fraude aliqua intervenient(ibus), sed sua spontanea, bona, libera ac gratuita voluntate predictum podium cum duabus salmat(is) terris, ipso podio computato, situm circa casale Ypsigro».
La chiesa cedeva quindi un appezzamento di terreno che dalla parte orientale cominciava dall’abside della chiesa di Santa Maria de Plano, da identificare senz’altro con l’attuale Matrice vecchia. Il confine scendeva per la via che conduceva a Pollina (attuali vie Collegio Maria e San Paolo) e continuava lungo l’itinerario (in direzione nord verso la contrada Cozzo Valenti) fino a un crocevia, da dove si dipartivano due strade: una conduceva a una sorgente di acqua non del tutto potabile, forse salmastra (fonte Salsa), l’altra a Pollina. A questo punto, il confine risaliva fino a incontrare due grossi massi chiamati Gurga (?) e continuava fino a un masso aguzzo collocato a nord, in prossimità di un dirupo (lavancam), da dove proseguiva (verso occidente) fino a raggiungere l’itinerario che da Ypsigro conduceva a Cefalù, lo percorreva verso Ypsigro (a sud) fino a un grosso masso e raggiungeva così da occidente nuovamente la chiesa di Santa Maria de Plano. Insomma il confine, partiva dall’abside della chiesa, puntando verso nord fino alla pietra aguzza, dove svoltava verso occidente e, raggiunta la strada Ypsigro-Cefalù, ritornava indietro verso sud, cioè verso il casale, per raggiungere infine la chiesa dalla parte occidentale. Purtroppo non è possibile individuare la fonte Salsa e i massi che segnavano il confine. Si può dire tuttavia che si trattava di un appezzamento di terra che dalle mura settentrionali di Ypsigro – collocate all’inizio dell’attuale via Sant’Anna, alle spalle dell’ex carcere di piazza Margherita – si estendeva verso nord occupando l’area del poggio su cui sarebbe sorto il castello e lo spazio retrostante di contrada San Paolo per complessivi 7 ettari. Confine orientale era la strada per Pollina, confine occidentale la strada per Cefalù (via Gibilmanna), mentre a nord il confine non doveva collocarsi molto oltre l’attuale circonvallazione di Castelbuono: corrisponderebbe all’area oggi occupata dalla via Sant’Anna e strade adiacenti, castello, parco di rimembranza, case popolari, stadio comunale, camposanto, ecc.
La chiesa di Santa Maria indicata dall’atto di permuta dovrebbe essere la futura Matrice vecchia, che a fine Quattrocento prese ufficialmente il nome di Maria SS. Assunta, ma già allora in esercizio e dotata anche di abside. La sua costruzione in stile gotico appare infatti chiaramente anteriore a quella del castello, mentre la cripta è ritenuta addirittura di architettura araba. L’area su cui essa insiste è periferica rispetto al nucleo di Ypsigro: un’area cioè che allora poteva essere ancora esterna all’abitato, proprio alla base del poggio di San Pietro. Nel 1322, era anche indicata come «ecclesia Sancte Marie de Ypsigro» e doveva disporre di capienti magazzini se lo stalliere Angelo poteva depositarvi 10 salme e 13 tumoli di orzo da utilizzare per l’alimentazione degli animali del conte.
All’interno del casale esisteva un’altra chiesa dipendente dalla diocesi di Messina, della quale nel 1308-1310 era cappellano il sacerdote Nicolò («presbiter Nicolaus cappellanus casalis Ypsico»). Ma non è possibile localizzarla: potrebbe essere la chiesa di San Giuliano oppure quella di San Pietro, entrambe sull’attuale via Umberto I, ai margini del quartiere che più tardi si chiamerà Terravecchia. A mio parere, sono le più antiche del paese: una ubicata, quella di San Giuliano, nel locale oggi occupato dall’ufficio turistico del comune, confinante con la sacrestia della chiesa dell’Itria; l’altra, quella di San Pietro, nel Settecento trasformata in sacrestia della chiesa del Crocifisso e attorno al 1960 in un brutto edificio, oggi al piano terra adibito a libreria.
Ottenuto il poggio di San Pietro, già anteriormente al 25 marzo 1317 Francesco avviò la costruzione di un castello, il castrum Belvidiri de Ypsigro, distante qualche centinaio di metri dall’abitato. Lo documenta proprio la lapide citata all’inizio: + ANNO INCARNATI(ONIS) VERBI M° CCC° XVI° IND(ICTIONIS) XV REGNANTE | GLO(RIO)SISSI(M)O D(OMI)NO N(OST)RO REGE FRIDERICO REGE SICILIE AN(N)O RE|GNI SUI XX°I° NOS FRA(N)CISCUS COMES VI(N)TIMILII YSCLE MAIO|RIS ET GIRACII ET D(OMI)N(U)S UTRIUSQ(UE) PETRALIE I(N)CEPIMUS HOC| CASTRU(M) BELVIDIRI DE YPSIGRO IN CHRISTI NO(M)I(N)E EDIFICARE.
Traduco: Nell’anno dell’incarnazione del Signore 1316 [ossia dal 25 marzo 1316 al 24 marzo 1317], indizione XV [ossia dall’1 settembre 1316 al 31 agosto 1617], nel ventunesimo anno di regno del nostro gloriosissimo signore re Federico, re di Sicilia [ossia dal 25 marzo 1316 al 24 marzo 1317], noi Francesco, conte di Ischia Maggiore e di Geraci e signore delle due Petralie, abbiamo cominciato a edificare nel nome di Cristo questo castello nel (o del?) belvedere di Ypsigro.
Ora, il 1316 dell’incarnazione, la quindicesima indizione e il ventunesimo anno di regno di re Federico coincidono soltanto nel periodo dall’1 settembre 1316 al 24 marzo 1317), periodo in cui, sulla base delle indicazioni della lapide, poté avvenire l’avvio dei lavori, ma, poiché la permuta si stipulò l’8 gennaio 1317, l’inizio deve necessariamente collocarsi tra l’8 gennaio e il 24 marzo 1317.
La tradizione ne attribuisce la costruzione alla volontà di Francesco di dotarsi di una dimora più confortevole della fredda e inospitale rocca di Geraci. Ma già alla fine del Duecento i Ventimiglia disponevano a Cefalù di un hospicium (un palazzo), dove preferivano vivere anche nel Trecento, esercitando un pesante ruolo di protettori del vescovo, cui usurpavano beni e poteri. Si tratta molto probabilmente dell’Osterio Magno, un edificio dall’architettura raffinata, il secondo per importanza dopo la cattedrale normanna, ampliato fra il 1320 e il 1330, cioè proprio negli anni in cui la fabbrica del castello di Ypsigro era ancora in corso sotto la direzione del geracese Giovanni de Carbono.
All’origine della costruzione del castello non c’era quindi la necessità di una nuova dimora. Più verosimilmente la motivazione della sua erezione deve individuarsi nello stato permanente di guerra in cui era caduta la Sicilia dopo il Vespro (1282) e soprattutto nella ripresa delle incursioni napoletane nel 1313, mirate non tanto a occupare territori, quanto a distruggere gli abitati aperti (casali non fortificati) e a devastare con l’incendio e le razzie i raccolti e le masserie, allo scopo di affamare la popolazione e rovinare contemporaneamente le fonti della ricchezza del regno. La costruzione di un castello a Ypsigro nel 1317 va dunque considerata nel quadro di una politica di difesa del territorio: per la sua particolare posizione baricentrica, il castello non solo veniva a costituire una sicura protezione – e all’occorrenza anche un rifugio – per la popolazione dei casali indifesi dell’intera conca, ma valeva anche a chiudere a chiunque la via d’accesso verso le Madonie.
Ypsigro era allora un borgo di poche decine case, al centro di un territorio scarsamente coltivato, che nel 1320-21 forniva al signore feudale un rendita molto modesta: appena 37 salme di grano, 13 salme di orzo e 43 onze in moneta, su un introito complessivo di 2336 salme di grano, 652 di orzo e 995 onze in moneta fornito dall’intera contea di Geraci. Le colture dei cereali (grano e orzo) e della vite, come pure la stessa pastorizia, vi occupavano spazi molto ristretti, mentre di uliveti, che qualche secolo dopo saranno la coltura prevalente, non c’è addirittura traccia. L’incolto insomma vi dominava incontrastato e il bosco, che a ovest si fermava a Vinzeria, dalla parte di sud-est si spingeva fino a lambire le case del borgo.
In quella selva ai piedi dei Nebrodi (come allora si chiamavano le attuali Madonie), qualche decennio prima della costruzione del castello l’eremita fra Guglielmo da Polizzi (†1321), grazie alla generosità e all’incoraggiamento del conte Alduino, aveva già fondato un minuscolo cenobio (poi dedicato a Santa Maria del Parto e oggi noto come Romitaggio San Guglielmo) e vi si era trasferito con qualche confratello, dopo alcuni anni trascorsi in totale solitudine in una grotta nei pressi dell’eremo di Gonato, tra preghiere, digiuni e visioni ascetiche, secondo il modello del monachesimo greco-bizantino. A lui si deve fra l’altro anche la fondazione della chiesa rurale di San Calogero, a cinquecento passi da Ypsigro, e dell’eremo di Santa Maria della Misericordia sul monte Monaco, a due miglia dal casale, dove egli era solito ritirarsi durante la quaresima e che nella seconda metà del Cinquecento sarà eretto in priorato.
L’avvio dei lavori di costruzione del castello dovette richiamare a Ypsigro numerosi lavoratori, soprattutto dai vicini casali della vallata (Fisauli, Vinzeria, Sant’Elia, Lanzeria, Tudino, Zurrica, Sant’Anastasia), che presto – anche in conseguenza del perdurante stato di insicurezza e della peste nera che nel 1347 si abbatté sulla popolazione siciliana – si spopolarono a vantaggio di Castelbuono (Castrum bonum, Castello bono), come nel corso del terzo decennio del Trecento cominciò a essere nominato il vecchio casale. Ai nuovi abitanti il signore dovette concedere agevolazioni e aiuti per la costruzione di case e la messa a coltura dei campi, oltre alla possibilità – forse già sin d’allora – di innestare gli oleastri che crescevano spontaneamente nei suoi feudi e di appropriarsene, a patto che si obbligassero al rispetto del diritto dei nozzoli, cioè al monopolio dei suoi trappeti, dove le olive venivano sottoposte soltanto a una leggera spremitura, che lasciava buona parte del prodotto a disposizione del feudatario. Aveva così origine la proprietà promiscua, presente ancor oggi nelle campagne dell’antico ‘stato’ di Geraci – in cui talora suolo e ulivi appartengono a due diversi proprietari – e anche nei vicini territori di altri comuni.
La storiografia municipale fa risalire alla metà degli anni Quaranta del Trecento la costruzione della chiesa di Santa Maria dell’Aiuto o del Soccorso, al di là del torrente San Calogero o Mulinello, ad ovest del castello e a circa un chilometro dall’antico Ypsigro, nella contrada Fribualo, per impetrare l’aiuto della Madonna di fronte alla terribile epidemia di peste che imperversava in tutta l’area mediterranea. La chiesa, di cui oggi si intravede appena qualche rudere, è sicuramente fra le più antiche del borgo e fu molto cara ai Ventimiglia, che nel Quattrocento – in attesa che si ultimasse la cappella di Sant’Antonio di Padova, destinata ad accoglierne le spoglie – la scelsero come loro sepoltura. La sua costruzione mi fa pensare perciò che gli immigrati dai casali vicini, più che all’interno della cinta muraria di Ypsigro, si insediassero proprio nella contrada Fribaulo, dove trovavano sicuramente spazi più ampi e magari una maggiore disponibilità da parte dei Ventimiglia, che ancora nel Cinquecento e forse anche nel Settecento non rinunzieranno a rilanciare l’urbanizzazione della zona. Sembra come se un altro borgo, un nuovo minuscolo borgo, sorgesse nel Trecento sull’altra sponda del torrente, di fronte all’antico ancora chiuso fra le sue mura e piuttosto diffidente verso i nuovi venuti e, chissà, forse anche verso gli stessi feudatari.
Nel suo testamento, il conte Francesco Ventimiglia espresse il desiderio di essere tumulato a Castelbuono, all’esterno della chiesa di San Francesco, oltre la porta principale, non quindi nella cappella di famiglia nella cattedrale di Cefalù. È molto significativo che, come luogo dove coltivare la memoria del lignaggio, Francesco non scegliesse Geraci, bensì Castrum bonum e in particolare la chiesa di San Francesco attigua al cenobio francescano, la cui fondazione in un centro della contea era stata personalmente da lui perorata nel 1318, in occasione della sua missione ad Avignone presso papa Giovanni XXII, e autorizzata nel 1331 anche dall’arcivescovo di Messina. Nell’agosto 1337, data del testamento, la chiesa e il cenobio erano già stati appena edificati (ma non ancora completati) a spese del conte nella parte più elevata del borgo, fuori le mura, in prossimità dell’uscita della galleria sotterranea segreta che – secondo la tradizione locale – dal castello avrebbe condotto nel bosco. E infatti il cenobio e la chiesa non erano ubicati all’interno del borgo, bensì all’esterno, in prossimità – si dice – della terra di Castelbuono dove un tempo c’era l’orticello chiamato Ipsigro, e più precisamente in un pianoro che apparteneva al conte testatore, che probabilmente contestualmente egli donava ai frati e che corrisponderebbe al viridarium o giardino poi detto delli girasi o cirasi (ciliegi).
La tragica morte del conte Francesco (†1338) nella Geraci assediata dalle truppe del nuovo sovrano Pietro II, a lui ostile, portò alla confisca di tutti i suoi possedimenti. Da allora, per oltre un secolo, si può dire che il vocabolo Castrobono scompaia dalla documentazione archivistica e, se qualche volta si trova, è quasi sempre riferito alle vicende dei signori feudali. È come se il borgo e i suoi abitanti non fossero mai esistiti, come se i decenni e poi i secoli successivi fossero senza storia: così poco sappiamo delle vicende e degli uomini che vissero a Castelbuono negli ultimi secoli del Medio Evo! Uomini senza nome, senza storia, appunto. È presumibile che – come per il cenobio di San Francesco – alla morte del conte Francesco la costruzione del castello non fosse ancora completata e che il villaggio dovette subire una lunga fase di stasi, con ripercussioni anche sull’incremento della sua popolazione, tanto più che la Sicilia attraversò una crisi demografica che fra il 1340 e il 1390, a causa di una serie di pestilenze e delle vicende belliche, ne ridusse la popolazione di circa il 40 per cento. Castelbuono forse riuscì a contenerne meglio gli effetti grazie all’afflusso di nuclei di abitanti dai casali vicini, che si spopolarono completamente.
Orazio Cancila