Il bene del paese e le tessere di partito

Nei giorni scorsi ho fatto una capatina al comune. C?era Consiglio, ho dato un?occhiata. Poi sono uscito quatto quatto in preda a un senso di smarrimento. Mi sentivo spaesato: quanto è cambiata Castelbuono in questi anni! Mario Cicero sindaco, Nicola D?Ippolito e Giuseppe Genchi assessori, Giuseppe Fiasconaro vicesindaco. E poi un sacco di giovani tra i banchi di maggioranza e opposizione… Ma quello che mi ha colpito più di ogni altra cosa è stato vedere quanta distanza c?è tra i vari gruppi politici, l?astio che cova tra «fascisti» e «comunisti», tra il Don Camillo e il Peppone di turno.
Quella che conservo io del consiglio comunale è un?istantanea ormai ingiallita.

Quando seguivo le sedute, fino a una decina di anni fa, Pino Naselli era la testa di serie numero 1 di Forza Italia a Castelbuono. I suoi monologhi duravano anche un?ora e mezza, intervallati da qualche sorsata d?acqua, ed erano supportati da ore di studio tra i documenti e gli incartamenti raccolti nei vari uffici. Faceva le pulci all?amministrazione, Naselli. Alla fine non otteneva quasi niente, ma il suo impegno era davvero esemplare. Sulla poltrona di presidente sedeva Antonio Tumminello (u? luaccu), poi c?erano i «fascisti», il gruppo misto, tre esponenti della lista Civica e nove (quindi minoranza) del Movimento democratico per Castelbuono-l?Ulivo. In platea eravamo io, la buonanima di Lucio Spallino, ?Gnazzino, il maresciallo Ugone con la sua immancabile cartelletta nera… E basta più. Erano tempi strani quelli lì. I politici castelbuonesi della Prima Repubblica stavano lentamente lasciando il passo ai volti nuovi, Mario Cicero era segretario cittadino dei Ds (già quella carica sembrava un?enormità) e con un?assemblea a settimana ? i temi spaziavano dai problemi degli olivicultori al rilancio del polo culturale madonita (?) ? preparava terreno e consenso per la sua prima candidatura a sindaco di Castelbuono. Allora questa ipotesi ci sembrava assurda. Più o meno quanto l?idea che, all?indomani dell?11 settembre, l?America avrebbe attaccato un?altra volta l?Iraq. Ma il destino, si sa, spesso è beffardo.
Erano tempi strani, quelli lì. Il sindaco, Peppinello Mazzola, dall?alto della sua immensa modestia era sicuro che alla fine i suoi alleati gli avrebbero chiesto il bis. Naselli, dal basso della sua lunga gavetta in Consiglio all?ombra di Ciccio Romeo, pensò che forse il centrodestra avrebbe scommesso su di lui, mentre Antonio Tumminello (il non locco) scalpitava perché era sicuro che quel posto (quello di secondo classificato alle amministrative) ormai gli apparteneva di diritto. Finì come finì: Mario Lupo chiese spazio a Tumminello, che a sua volta ricevette ampie rassicurazioni da Cuffaro («Antò, la prossima volta: ancora sì carusu»), mentre Mario Cicero, in barba a ogni pronostico, dal palco della Chiazzetta riuscì a dire una frase che forse aveva preparato per anni: «E se ce l?ho fatta io, chiunque potrà aspirare a diventare sindaco».
* * * * *
Alla fine anche gli americani invasero l?Iraq. E a distanza di cinque anni Mariuzzu, che per candidarsi la prima volta aveva puntato i piedi invocando il principio dell?alternanza, decise di concedere il bis ai castelbuonesi. Ma si sa, la parola coerenza non sempre trova spazio nei dizionari della politica. Basti pensare che lo stesso centrosinistra che oggi chiede a Cuffaro di dimettersi ieri lo annoverava tra i suoi assessori nella giunta regionale. E domani? Meglio non fare previsioni, potrebbe finire come con la guerra in Iraq.
Ecco, i miei ricordi erano rimasti fermi a quell?immagine lì il giorno in cui, per forza di cose, fui costretto a disertare per sempre le sedute del Consiglio. Ero rimasto al consigliere Antonio Di Pasquale che ? in preda a una sorta di sdoppiamento alla dottor Jekyll e mister Hyde ? a volte concludeva i suoi interventi con «Viva il Santissimo Crocifisso», ma che nei momenti importanti (vedi bilancio o piano regolatore) sfoggiava tutta la sua saggezza invitando i colleghi a prendere decisioni che uscivano dalle logiche dei partiti e si concentravano sul bene del paese. E poi ricordo la parentesi tutt?altro che loquace di Giovanni Ricotta, allora il più votato, la cui voce è stata sentita solo al momento del giuramento…
Devo dire che un po? mi manca quella dimensione. Mi manca quello che ?Gnazzino definiva il miglior teatro castelbuonese, «che puoi seguire solo se decidi di vederlo come uno spettacolo in cui ognuno è la satira di se stesso». Mi manca la dimensione paesana che viveva e lavorava secondo logiche legate soprattutto all?essere castelbuonesi. E non a una tessera di partito. Da quello che ho potuto vedere dal vivo in quei pochi secondi o attraverso questo blog ho capito che oggi il clima è cambiato radicalmente. Il comunista ritiene impensabile anche solo salutare il fascista, tra avversari non ci si parla più, gente che fino a ieri era pappa e ciccia oggi litiga perché deve seguire l?esempio dei punti di riferimento a Roma, il cui unico problema è trovare una legge elettorale che possa loro garantire una poltrona perenne.
Ecco, a mio avviso questa dimensione non ha niente a che vedere con Castelbuono. Il nostro paese è sempre stato laboratorio di politica ma mai cavia. Mai schiavo di tessere o ordini di chissà quale colonnello. Per questo, accogliendo l?invito della redazione, ho pensato di lanciare uno spunto di riflessione per certi versi antipatico e per altri qualunquista. E la domanda è questa: castelbuonesi, cos?è rimasto della castelbuonesità?
Salvo Smentita