Sono sempre stato convinto di aver passato l’infanzia in uno dei periodi più belli che la storia dell’umanità abbia mai attraversato. Del resto provate a confrontare il 1988 con il 1347, quando la peste nera imperversava per l’europa: anche solo guardando in faccia il tuo vicino prendevi un morbo che ti trascinava in tre giorni nella tomba, e non c’erano nemmeno i Duran Duran. Ma credo sia un vezzo di tutti gli umani, quello di ricordare con affetto gli anni della propria infanzia, di rimpiangerne le atmosfere, le ingenuità, ritornando con la mente a tutti quei personaggi che la costellavano, tutti pieni di amore e bendisposti verso il prossimo. Bè, non proprio tutti.
Quando chi scrive era un imberbe fanciullo, le torme di ragazzini attraversavano le vie del paese rincorrendosi e dubitando ad alta voce della moralità delle rispettive madri, esattamente come si fa adesso su Facebook, ma in piazza. Capitava spesso, passando davanti uno dei moltissimi circoli di anziani che c’erano allora, e che ora stanno a poco a poco diventando tutti Compro Oro, che un anziano tra gli altri, con la coppola come tutti gli altri, ti fermasse al volo acchiappandoti per la collottola: “Attia carusi” esordiva con l’agghiacciante preludio a tutte le più orribili minacce che gli adulti erano capaci di proferire (“’u tagliami ‘stu palluni?” era la peggiore, specie quando il pallone finiva arruccato nel balcone del minacciante), “Attia carusi”, dicevamo, “vieni ‘cca, tu cu sì, u niputi ‘i Don Vicienzi?”, nemmeno aspettava la risposta del trafelato ragazzino, e subito proseguiva: “Cci’arrivi nn’o tabbacchini e m’accatti dù pacchi di Alfa senza filtro?”
Il ragazzino non poteva fare altro che assentire, acchiappare le due, tremila lire, e partire di corsa per il tabbacchino sperando in una, seppur piccola, mancia. Non dico tanto, ma almeno duecento lire da abbucare nel gioco della scimmia, Nn’o Zzu Filippu. O se proprio andava male cento, nel gioco dell’ascensore. Arrivato dal tabbacchino, il sudato ragazzino aveva la prima sorpresa: il vecchio sapeva contare bene. Le carte da mille lire erano bastanti perfettamente per comprare due pacchi di Alfa senza Filtro (come riuscissero a fumarsele, quelle sigarette, resta un mistero irrisolto), nessuna ombra di resto.
Tornato ’ u carusu alla vista del circolo, il vecchietto si era intanto seduto insieme ai suoi amici di vecchia data a giocare a carte, su una di quelle sedie con la seduta di paglia intrecciata a mano, verniciate di marrone scuro, che trovate ancora dalla nonna. “Cca’ ci su i sigarette, zzu Totò!” esordiva con voce squillante il bambino. Ed era lì che il vecchietto tirava fuori il suo colpo di genio: “Oh, grazie. Pua ‘ppi Sant’Anna t’accatti u gelatu.”. Il bambino restava inebetito. Sant’Anna è a Luglio. Era Novembre.
Personalmente me la sarò sentita rivolgere decine di volte, questa frase, quindi non si trattava di una battuta di spirito di un creativo vecchietto, ma di un modo di dire, una frase fatta. I mesi passavano, il ragazzino cresceva, tra le interrogazioni e i giochi, e arrivati finalmente a Sant’Anna, il vecchietto non si sa come né perché, al suo posto non c’era mai. Sarà che con la coppola sembravano tutti uguali, forse dal circolo dei Pastori Pio XII si era spostato per questioni ideologiche al circolo dei Reduci d’Oltremare, forse aveva vestito l’abitino ed era pure lui appresso alla processione, forse era persino morto. Il dubbio sopraggiungeva: “Ma Sant’Anna significa il 25, il 26 o il 27? E prima o dopo la processione?”. E mentre la congregazione dei tipi vestiti di nero con i guanti passava, e le Pie donne cantavano ognuna un quarto di tono sotto all’altra, ci si doveva rassegnare a comprarselo da sé, il gelato allimoneffragola.
Tutt’oggi, quando passeggio per le vie del paese, mi capita di soffermarmi a osservare i pochi circoli che sono sopravvissuti. I luoghi sembrano essere rimasti gli stessi, le sedie pure. Anche i vecchietti sono uguali: passano gli individui, cambiano le generazioni, ma le ere della vita sono immutabili. Ci saranno sempre dei bambini, dei giovani e dei vecchietti, ognuno con le sue occupazioni, preoccupazioni, sempre diverse per ogni età. Ma io vorrei proprio capire dunni minchia finiv u’zzu Totò ccu ma gelati.